Salvo complicazioni

Il cielo è azzurro tappezzato a intermittenza da nuvole pallide e impalpabili come lenzuola stropicciate. Un gruppo di ragazzi afroamericani seduto a gambe incrociate, mascherine colorate a coprirne i sorrisi ascolta un reverendo che parla.

Io un po’ fisso il cielo e un po’ cerco di incrociare gli occhi di Saphira che seduta di fronte a me fa di tutto per evitare il mio sguardo. Intanto le nuvole pascolano placide nell’indaco del cielo e una brezza gelata soffia aliti salmastri che sanno di alghe e sabbia marina. I ragazzi dal canto loro potrebbero trovarsi nell’Arcadia e non se ne accorgerebbero tanto pendono dalle labbra del pastore.

Il reverendo è un uomo sui quarant’anni, pelle scura e lucida, testa perfettamente rasata, una barba nera fitta e riccioluta guastata qua e là da striature biancastre, occhiali spessi e scuri, occhi grandi e sinceri, denti immacolati con gli incisivi appena pronunciati. «Ragazzi» dice schermandosi gli occhi trafitti dal primo sole del pomeriggio, «Chi più sa, più soffre” recita il Qohelet (1, 18). A che serve capire come si comportano gli esseri umani quando poi si scopre che niente cambia, che le ingiustizie continuano? Io non sono qui per portarvi risposte, al massimo nuove domande. Questa settimana, di nuovo, ci ritroviamo a parlare di fratelli neri fermati dalla polizia, umiliati… uccisi…»

Finalmente riesco ad incrociare lo sguardo di Saphira che dall’altra parte del cerchio di ragazzi fa un impercettibile cenno con la testa, come a dire: ma che vuoi da me? Potevi anche capirlo da solo…’

Rivivo in differita la conversazione che ho avuto con lei due giorni fa, mi aveva fermato a tradimento mentre mi affrettavo lungo il corridoio sull’ala ovest della scuola, mi aveva sorriso facendo sussultare la mascherina, poi con fare sornione mi aveva chiesto se me la sentivo di presenziare ad un incontro dell’African american society della scuola. Ero entrato quasi subito in modalità difensiva, inarcando le spalle e strabuzzando i piedi; lei aveva sorriso con più convinzione e mi aveva detto che un reverendo afroamericano avrebbe parlato di ‘come gestire l’ansia… e che per poter fare l’incontro ci voleva un professore della Silvana High School…’

Mi schermo gli occhi con la mano e faccio una smorfia a Saphira; lei fa spallucce e torna a fissare il reverendo. Io abbasso la testa e rileggo per l’ennesima volta il ciclostilato della riunione:

‘Come controllare l’ansia virgola quando vieni fermato dalla polizia.’

De mortuis tuis…

Giro gli occhi e fisso la bandiera che sventola a ridosso del campo di lacrosse, inspiro ed espiro cercando di elevare i pensieri. La bandiera si stende pizzicata dal vento della baia

Il reverendo intanto continua a parlare, ha una voce suadente e virile, parole schiette pronunciate senza fretta: «Tutti gli afroamericani prima o poi vengono fermati dalla polizia… A volte viene quasi voglia che la terra ci inghiottisca…solo per essere al sicuro da tutti quegli occhi che guardano questa persona di colore che viene fermata dalla polizia»


«Ragazzi» insiste il reverendo, «Sono sicuro che voi… o qualche vostro familiare o amico ha avuto esperienze spiacevoli con la polizia… è ora di parlarne e di capire come comportarsi quando si ha a che fare con la polizia… e prendere consapevolezza con il privilegio bianco che non è razzismo ma forse in un certo senso molto più pericoloso. Il razzista sa di esserlo e ci odia, chi è avvantaggiato dal privilegio bianco non lo sa e diventa razzista… a sua insaputa.»

Un ragazzino minuto alza una mano ossuta e comincia a parlare: «Due settimane fa correvo a casa…un agente mi ha fermato, ha detto che ero sospettoso perché stavo correndo con i pantaloni della tuta.»

Una ragazza, lunghe trecce nere, una mascherina bianca a coprirle il sorriso alza timidamente la mano, il reverendo sorride senza fretta e le fa cenno di parlare.

«Mio fratello che studia all’università è stato fermato da un agente di polizia mentre camminava verso il campus. Lui ha chiesto: qual è il problema? L’agente ha risposto: Stiamo cercando un sospetto per una rapina. Strano che abbiano fermato solo lui, dato che portava molti libri sotto il braccio – e nello zaino… L’hanno trattenuto per un po’ e poi l’hanno lasciato andare, ma ho imparato che la polizia non fa distinzioni in fatto di istruzione, occupazione, classe o status sociale quando si tratta di uomini afroamericani.»

Un ragazzo robusto alza la mano e comincia a parlare: «Durante la pandemia, visto che le scuole erano chiuse io e mia mamma siamo tornati nella sua città natale. Così mi sono ritrovato a fare il giovane adolescente in una piccola comunità del Kentucky…. Beh, sono stato fermato cinque volte in una settimana dalla polizia locale, senza alcun motivo.»

Il reverendo riprende la parola: «Mia moglie ed io ci eravamo appena trasferiti in un nuovo quartiere. Stavamo facendo il giro dell’isolato per accompagnare mia figlia all’asilo… quando un agente di polizia in borghese ci ha fermato dicendo che una delle mie luci posteriori era rotta. Mi ha chiesto cosa stessi facendo nel vicinato, quando gli ho detto che vivevo lì sembrava incredulo. Mi ha chiesto tre volte se vivevo davvero lì. Certo che sì, gli avevo risposto. Alla fine mi ha detto di aggiustare la mia luce posteriore e se n’è andato. Allora sono sceso dalla macchina e ho chiesto a mia moglie di premere il freno: beh… entrambe le luci degli stop funzionavano perfettamente… Anche se questo non dovrebbe essere il caso, insegnare ai propri figli a trattare con la polizia è spesso una lezione che i genitori neri devono instillare nei loro figli in tenera età..»

Incrocio gli occhi del reverendo e non so più dove guardare, le mie pupille sono docili e indifese come Galatine, le sue cariche di veemenza e rabbia come Fisherman’s Friend alla menta extra forte. Giro pusillanimemente lo sguardo e torno a fissare la bandiera che nel frattempo si è voltata a sua volta come a darmi le spalle.

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Published by excathedra20

Insegnante di latino e italiano per una decina di anni in Italia, dal Duemilaundici in una scuola superiore negli Stati Uniti.

One thought on “Salvo complicazioni

  1. Negli anni ’80, quando giovane medico trascorsi più di un anno di internship alla Mayo Clinic, il Minnesota, soprattutto l’ambiente semirurale di Rochester, era un frammento di Sassonia e di Scandinavia in terra americana, completo di chiese luterane, sagre a base di birra e splendide, interminabili fanciulle vichinghe dalla dieta già esageratamente calorica. Forse oggi la situazione “etnica” è cambiata, non so; immagino non la dieta ipercalorica, anzi.
    Fu un periodo molto felice, ma ricordo che due aspetti mi colpirono molto e, forse, contribuirono a decidere il mio ritorno in Italia: girando da solo non ho mai avuto problemi con la polizia, ma le uniche due volte che girai per Rochester in compagnia di una gastroenterologa nera senza l’accompagnamento ulteriore di un vichingo o di una vichinga fummo scrutati con sospetto dalla polizia e una volta fummo anche fermati in modo piuttosto brutale e interrogati.
    Il secondo aspetto per il quale lasciai perdere la Green Card fu l’uniquitaria frenesia per le armi: i miei colleghi (e colleghe), invece di dedicarsi durante il weekend a divertimenti più usuali, dal Monopoli al sesso ricreativo, sceglievano di andare al poligono vestiti come truppe d’assalto. Le vichinghe agghindate come seals erano decisamente conturbanti, ma non in senso positivo. Ed era l’angolo più progressista d’America!

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